Gli amici di Runlovers hanno pubblicato un articolo dal titolo “Correre nell’era del terrorismo” dedicato alla dimensione, non solo sportiva, nella quale domenica 22 febbraio si è svolta l’ottava Maratona di Tokyo, in Giappone, oltraggiato di recente dalla decapitazione del giornalista Kenji Goto per mano dell’Isis.
Ho trovato molto lucida la loro riflessione.
Il governo di Tokyo e l’organizzazione della corsa hanno ritenuto che l’evento, in grado di attirare più di 35.000 concorrenti, in un momento in cui a livello mondiale tutto è estremamente delicato, potesse essere una cassa di risonanza perfetta per un’azione terroristica dalle conseguenze non prevedibili.
Del resto la Tokyo Marathon – The Day We Unite si propone come “evento disegnato per accogliere e promuovere scambi tra runner che provengono da ogni parte del mondo”.
Vigilanza video in ogni metro del tracciato, un percorso obbligato per raggiungere la partenza, con metal detector e poliziotti, nessuna bottiglia nelle griglie della partenza. Durante la corsa 64 agenti dotati di presidi di dissuasione, come i lacrimogeni. Forse il primo evento sportivo dichiaratamente antiterrorismo.
Il terrorismo mira a ribaltare la vita di tutti i giorni. Mira ad interrompere lo scorrere della quotidianità, imponendo le idee che promuove tramite morte, distruzione, ferite, apprensione, ansia, frustrazione. Si nutre del terrore generato. La azioni ripugnanti che, più di recente rispetto ad altre organizzazioni terroristiche, l’Isis compie sono amplificate nello stesso modo e tramite gli stessi canali che la maggior parte di noi utilizza per descrivere la propria quotidianità. Video, foto, post, tweet, social network. I terroristi fanno “lavorare la rete” di relazioni, contatti e connessioni esattamente come noi.
E, noto, tendono a colpire ed insinuarsi nei momenti della nostra quotidianità durante i quali cerchiamo di rilassarci, di fare ed essere quello che dà senso alle nostre giornate, quello che ci fa sentire ed essere liberi: i fumetti, la satira, i concerti, le redazioni dei giornali, i musei, l’infanzia, pranzi e cena con la famiglia attraverso i telegiornali, i viaggi, i social, tra un post del nostro amico in spiaggia dall’altra parte del mondo e una foto di un piatto della ragazza che ci piace. E’ una guerra, richiede strategia. E in questa strategia, lo sport è uno spazio da colpire. Specie momenti di sport collettivi, pacifici, gioiosi anche in mezzo a tanta fatica e sudore. Come è accaduto nel 2013 alla Maratona di Boston o nel 1972 alle Olimpiadi di Monaco.
Chi corre è inerme. In pratica non è vestito, è concentrato su se stesso, sta facendo fatica. Partecipa alle gare per condividere l’emozione, l’adrenalina e l’energia che la fatica della corsa dà.
Ed è forse questo elemento quello vincente, o che comunque può fare la differenza.
Chi corre, cerca di farlo ovunque e comunque.
Correre è un gesto passionale e naturale e istintivo. Non è né semplice né complesso. Esageriamo? E’ come fare l’amore.
Il terrorismo mira a commutare certezze e senso del futuro in ansie e distruzione.
Eppure: scrivere, raccontare, dipingere, amare, allontanarsi, darsi da fare, incontrarsi, ridere, piangere, litigare, fare sport e cose simili fanno parte del senso stesso dell’essere umani.
In estrema semplificazione, credo che il terrorismo, anche quello più disumano, anche quello 2.0, sia un fatto umano e come tale abbia avuto un inizio, una evoluzione, e avrà una fine.
In tutto questo, sono certo, che chi crede nella vita continuerà a fare l’amore, a leggere i fumetti, ad ascoltare musica. E a correre.
Così, oggi mi andava di scrivere queste parole.
Un abbraccio,
Alberto (@per4piedi)