Adesso racconto di pallavolo, poi vado a correre.
Soprattutto, parlo di uno spettacolo che non andrà in televisione. E non c’è nessuna immagine o video che lo racconterà.
Se io sono qui a raccontare storie di corsa, lo devo anche alla pallavolo che, nel bene e nel male, si è mescolata con le mie giornate da una decina d’anni.
La pallavolo mi fa viaggiare, raccontare, conoscere, intervistare, allacciare legami.
Guardare il mondo nella prospettiva di una partita a scacchi giocata a 130 km all’ora.
Uno dei luoghi comuni più sbagliati è che nella pallavolo non ci sia contatto fisico. Nella pallavolo il contatto fisico è ovunque.
Una pallavolista sogna. Inizia a giocare per un sogno che cresce con lei. Ho conosciuto donne che hanno giocato a pallavolo per pochi anni, così, anche soltanto per fare sport, ma quando lo ricordano hanno spesso negli occhi qualcosa di felice. Non sempre, ma per la maggior parte delle donne che ho conosciuto è così.
Quando diventi una pallavolista professionista la tua vita cambia. Per professionista intendo che la pallavolo diventa la tua priorità e la tua fonte di emozione ed energia principale.
Nonostante nocche sbattute e rotte. Ginocchia e spalle che ti fanno vedere le stelle dal male. Con le tue mani vuoi solo spingere il pallone come fosse il sole nel cielo. Se poi giochi in serie A/1, ti capiterà di condividere il lato emotivo di tutto questo spesso prima con persone che ti osservano da lontano, senza sapere come sia la tua vita da vicino. E, tra le persone che ti guardano da lontano, molte sono giornalisti.
Domenica 1° marzo 2015 ero al 105 Stadium di Rimini, la finale di Coppa Italia era appena finita e il campo rosa aveva raccontato la vittoria di Novara contro Modena. Una partita di adrenalina e spettacolo. Dopo qualche manciata di secondi dall’ultima azione e sul campo il gioco ha lasciato spazio ai riflettori. Io ero lì, nella linea di telecamere, microfoni, registratori, smartphone, tablet, persino penne e block notes, che un pass stampa apre per svolgere un lavoro complicato, difficile, bellissimo. Francesca Piccinini è una delle giocatrici che hanno inventato la pallavolo moderna, italiana e mondiale. E in Italia e nel mondo Francesca ha vinto praticamente tutto quello che poteva vincere. Domenica 1° marzo a Rimini Francesca giocava con Modena e aveva appena perso la finale. E le bruciava. Non importa. Era triste. Era richiesta. Un addetto stampa della Lega Volley l’ha accompagnata nella zona interviste, davanti ad un pannello con i loghi degli sponsor su fondo bianco lucido elegante, ed una decina di giornalisti attorno. Flash, azione. In 300 secondi di intervista, ti piovono addosso in media dieci domande. E tu sei sfinita. Osservavo la scena distante pochi passi. Con me c’era Chiara: una giornalista, una donna che apprezzo per come è graffiante e decisa e intelligente e sensibile in due frasi. Vicino a noi c’era un papà con sua figlia. Bionda, alta quanto può essere una bimba di credo sette anni, ma forte come possono essere già i sogni a sette anni. La bambina teneva in braccio un pennarello nero e la riproduzione in miniatura del pallone ufficiale della partita.
Stava vedendo il suo mito di che faceva le interviste. Aspettava. Aspettava. 300 secondi possono essere lunghissimi. Il papà guardava la stessa scena con aria sconfortata. Come raggiungere la Piccinini contornata da giornalisti e addetti dell’organizzazione?
E infatti la giocatrice se ne va, sparisce dietro la porta che porta agli spogliatoi.
La bambina dice no con lo sguardo, ha una luce rassegnata. Il papà ha un volto agrodolce. Io e Chiara ci guardiamo nello spazio di uno schiocco di dita. Nella pallavolo si chiama fast. Chiara allunga il braccio verso la bambina. “Posso?”, chiede al padre. “Davvero?”. Prende la bambina e iniziano a correre. La chiamo per darle il telefono che ho in mano. Ma sono già sparite dietro il pannello bianco lucido elegante. Penso che Chiara sia una donna coraggiosa prima che una giornalista determinata. E so che ci riuscirà. Guardo il papà, emozionato e un po’ più speranzoso. Corro verso la porta, voglio portarle il telefono per le foto, ma gli uomini della sicurezza mi fermano. “Non può passare nessuno.”
Non importa. So che loro sono passate. Chiara riuscirà a portare la bambina da Francesca Piccinini, riusciranno ad entrare anche dentro lo spogliatoio di Modena se sarà necessario. E quando una delle giocatrici più forti al mondo vedrà la bambina firmerà la miniatura di un pallone che avrà fatto incontrare una bambina, una giocatrice e una giornalista.
Tre donne.
E so che in quel momento Chiara cercherà il telefono, vorrà scattare una foto, non lo troverà, si maledirà per non aver avuto la freddezza di voltarsi a prendere il mio e si morderà le labbra.
Ritorno verso il campo camminando tranquillo e fischietto. Il papà mi guarda scuotendo la testa.
“Niente?”, mi chiede.
“Aspettiamo.”
“E’ la terza volta che cerchiamo di farci fare l’autografo da Francesca. L’anno scorso siamo andati da Urbino a Conegliano.”
“Conegliano? Noi siamo di lì.”
“Ce la faranno?”
“Io credo che se Modena vuole salire sulla corriera e tornare a casa, la Piccinini dovrà firmare quel pallone.”
Schiocco di dita e la bambina emerge dal buio degli spogliatoi correndo verso di noi con il pallone autografato da una leggenda della pallavolo mondiale. Il suo sogno.
La bambina di sette anni ha imparato a sognare. Il papà è felice.
Chiara parla con lo sguardo e un po’ trema. “Ce l’ho fatta”, mi sussurra appena.
Sarà che sono troppo sensibile, o nella testa chissà che ho, e mi commuovo perché in uno schiocco di dita la vita è fragile e potentissima.
La pallavolo è piena di contatto fisico.
E da qualche parte in Italia in questo momento c’è una donna che sta sognando.
Ciao,
Alberto (@per4piedi)