Mi sembra che negli Stati Uniti d’America, dalle parti dell’Arizona, esista un’espressione che suona più o meno come:“Sfida la tua palude.”
Ammesso che esista davvero questo modo di dire, il significato dovrebbe essere “Andare al di là di se stessi, dopo essersi trovati e sporcati per bene”.
Mi piace.
In pratica, è mettersi alla prova costantemente, partendo e arrivando in noi, sotto nuove forme. Non serve strafare, anzi: voler essere eroi a tutti i costi potrebbe avere un prezzo non sostenibile. E poi è stupido.
Mi piace anche l’immagine che mi suscita la palude.
Anni e anni in compagnia di noi-stessi accumulano strati su strati di abitudini, prassi, punti di vista, prospettive che, a volte, specie quando diventano scontati, possono rappresentare un peso. Come la melma di una palude che rallenta o addirittura blocca il movimento.
Corriamo il rischio di fermarci al passato. E di non sentire più niente.
Sfidare non significa rinnegare. Anzi, credo significhi “Andiamo a vedere se mi piace ancora quello che ho costruito o se posso migliorarlo.” Siamo noi il metro di giudizio di noi stessi. E non dobbiamo improvvisarci, magari ritenendo di avere forze maggiori di quante ne abbiamo. Però nemmeno decidere che stiamo dando tutto quello che possiamo esprimere, solo perché fare i fanghi è piacevole.
L’espressione dell’Arizona mi è tornata in mente l’altra mattina, mentre correvo dentro un caldo umido enorme, che, conoscendomi, rappresenta uno dei miei limiti, fisici e mentali.
Mi sono sorpreso.
Fino all’anno scorso nemmeno uscivo a fare due passi durante le ore più calde del giorno. Adesso, in modo naturale, provo a correre, con molta prudenza. E giocando a cercare l’ombra e benedendo l’acqua che mi porto dietro e gli alberi che mi accolgono sotto di loro, quando scelgo che “Per oggi basta così.”
Senza accorgermene e sempre ascoltando corpo e mente, sto sfidando la mia palude.
Ciao,
Alberto
(@per4piedi)