Ötzi: l’Isola Che Non C’è.

La birra bevuta con Ötzi è fresca e buona. Aprire una bottiglia di birra sopra i 3.000 metri di altitudine è un’esperienza che consiglio. 3.219 per l’esattezza della geometria. 

Ci sono esperienze che riesco a raccontare solamente dopo un po’ di tempo da quando le ho vissute. I giorni che passano hanno l’effetto della botte per il vino. Per altre, invece, le parole sgorgano fuori così forte che devo asciugarle per non disperderle

Ötzi si lascia raccontare così, senza sforzo. Anzi, mentre scrivo mi sto preparando una frittata, con qualche erba aromatica e spezie. 

Andrea ed io siamo partiti alle 6.22 di lunedì 26 giugno 2017 dall’albergo Rainhoff di Madonna di Senales. Agnese (ogni storia di viaggio ha una signora dell’albergo che dà buoni consigli) ci aveva suggerito di uscire il prima possibile, perché la strada è lunga e, soprattutto, non molla mai, sale sempre.


E dunque via. Verso il lago di Vernago, fino all’attacco del sentiero. Sembra una dolce strada di montagna, resa allegra da un ruscello che sbuca dal bosco profumato d’estate. È l’anticamera dell’ascesa. E te lo dice subito:”Tu lassù ci arrivi, ma scordati che sia semplice. Però tanto mi dai, il doppio darò a te.” 

La vegetazione si trasforma in pietra. Rossa, grigia, venature verdi, scanalature azzurro scuro. Ci sono le mucche, attente. Ci sono le marmotte, ottime sentinelle della montagna. Non fischiano, forse perché c’è molto vento e il suono si disperde. Forse le marmotte non fanno questo ragionamento da telegrafista


Il percorso è impegnativo, ben segnato, senza sosta. Il mio obiettivo è raggiungere quota 3.000 metri sul livello del mare. Non sono mai stato così in alto. L’altro obiettivo è raggiungere la zona del ritrovamento di Ötzi. Ancora più sù. 

Perché l’uomo sale in alto? Ötzi lo faceva per cacciare, per collegare i villaggi, per sete di conoscenza. Io salgo perché un giorno Andrea mi ha raccontato la storia di Ötzi, poi l’ho approfondita, ed è bello essere qui, un piede dopo l’altro, sudato, con l’ossigeno che si dirada, a dare forma ad un sogno. 


Il gioco è semplice: Sali. 

La salita è una compagna di viaggio leale. Se ne hai la percorri, se non ne hai ti fermi, ti riempi gli occhi di panorama e il corpo di frutta secca, disidratata, magari con una cialda attorno. E bevi. Andrea mi dice che suo papà Antonio ha una regola:”Ogni ora, circa 4 chilometri, pausa per bere l’acqua.La semplicità dell’esperienza scientifica. 

Il tratto che funge da passerella al rifugio del Similaun, nemmeno dovesse proteggere un tesoro nascosto, è una salita ripida, a serpentine, con tratti esposti, e corde fisse ancorate alla parete di roccia. Si può dire “ancorate” in montagna? 

Ci guida il cielo, ci guida l’istinto. Ci guidano gli incontri con chi sta scendendo dal rifugio. Chiediamo quando sia ancora lunga la strada per Ötzi e un ragazzo austriaco dice:”Ötzi? Who?” Forse devo pronunciarlo meglio. 

La compagna dell’austriaco è una ragazza con la pelle caffellatte, un sorriso del colore della neve e lo sguardo dei Caraibi. Curioso incontrarla a 3.000 metri. 


Non provo vertigine, anche se ogni passo la terra si allontana. Mi dicono che qui sù la testa possa iniziare a girare, le gambe diventare della consistenza di queste rocce. Sarà l’allenamento, sarà la determinazione, sarà l’incontro delle due nell’incoscienza positiva che spinge a salire, ma stiamo bene. Andrea è abituato, io no. E siamo contenti di ciò che sta accandedo. Le gambe sono in effetti più pesanti e, nell’ultimo tratto, decido di fermarmi ogni 50 metri. Giusto qualche secondo e poi ripartire. Una prova così, un viaggio così, distribuisce richiesta di impegno e regalo di emozioni in modo equo.

Il ghiacciaio del Similaun è il sipario alla fine della passerella. 

Siamo arrivati al Check Point Ötzi.


Indossiamo un capo termico, uno di quelli che utilizziamo per correre durante l’inverno. Il mio, dicono, abbia un potere nascosto. E con la nuova muta da super eroi proseguiamo verso la nostra meta. Ma il primo obiettivo è raggiunto. Siamo. 3.019 metri.  

Il tratto di sentiero verso Ötzi è di difficile interpretazione: abbiamo percorso 9 chilometri dall’albergo di Agnese. Siamo saliti di 1.600 metri. Ad Ötzi manca grosso modo un altro chilometro e mezzo e altri 200 metri di altitudine. Tempo di percorrenza: 2 ore. Perché? È troppo. 

E poi lo scopriamo. 


Alla spalle c’è il ghiacciaio del Similaun. Davanti un tratto di roccia che sembra la fiammata uscita dalla bocca di un drago. La roccia è rossa, liscia. Da lì in avanti il sentiero è tutto così. Ad occhio nudo sembra impossibile trovare una via. Il vento è freddo, la luce che rimbalza sulla neve mi dà fastidio agli occhi. Ci sono catene e corde fisse. E io mi trovo in un ambiente che non mi aspettavo, ed è la prima volta. Anche Andrea non si ricordava che la strada fosse tanto spigolosa. E, mentre ragioniamo, la Natura ci viene incontro. Letteralmente. In pochi passi. Esattamente 4. 


Andrea passa per primo un tratto con le catene sospese. Io vado più piano, tiro la catena e una porzione di pietre e terra scivola sotto i piedi. E mi ritrovo faccia alla roccia e gambe piegate. 

Ora, ho paura, non lo nascondo. Ho sangue freddo, non nascondo nemmeno questo. Faccio forza sulle braccia. Mi ritrovo le gambe in quella buffa posizione che assumo in palestra, quando faccio le flessioni che mi fanno assomigliare all’Uomo Ragno. Mi sollevo e mi stabilizzo. Andrea è preoccupato. 

“Dammi un attimo, mi riprendo.”

“Devo chiamare l’elicottero se hai paura,”

“Non diciamo cazzate.”

Respiro. Lentamente. Andrà tutto bene. Devo superare un muretto che mi arriva al petto. Non la condizione ideale, propro in quel momento, ma tant’è. Sono ancora scosso, ma tant’è. Il cielo è senza una nuvola, ma tant’è. Il vento è gelido e c’è un dirupo con la neve, ma tant’è. E io salto. Mi trovo nelle caviglie e nelle braccia un’agilità che non immaginavo. 

Poi guardiamo sù e la Natura ci viene incontro sotto forma di due esemplari di stambecco. È uno dei momenti più emozionanti della Vita. 


La strada prosegue. La stanchezza affiora. La strada sale. Ancora. Ho sete, ho fame. Andrea lo stesso. Incontriamo un escursionista tedesco. “Manca ancora mezz’ora.

Mentalmente è tosta. E poi un altro salto. Un’altra risalita. Ancora forza sulle braccia, con le gambe che spingono, con il cuore che spinge, con i polmoni che dicono, Non mollare. Mi viene in mente la regola del 40%: quando la mente pensa di essere alla fine, bene, hai ancora più della metà delle energie da tirare fuori. Circa il 60%. Inganno il cervello, rido, proseguo.

E dopo 5 ore e mezza di cammino, a 3.219 metri di altitudine, la zona del ritrovamento del nostro simile chiamato Ötzi è sotto i nostri piedi, tra le rocce nere, in mezzo alla neve. 

Qui sù la Storia ha scritto per noi.


E arrivare e vedere in lontananza una figura umana che si muove mi dà i brividi. Non conoscerò mai quell’escursionista, ma ha contribuito a regalarci un momento indelebile. Bellissimo. 

Ci sediamo, mangiamo altra frutta. Siamo stanchi. Apriamo le bottiglie di Forst. Ne esce un gaiser, come fossimo sul podio della Formula 1. Anche questo fa esperienza. E ridiamo ancora di più.


Ci sono momenti in cui capisci che ti puoi fermare e guardare indietro, un istante soltanto, per vedere dove sei stato, cosa hai raggiunto, cosa il percorso ti ha proposto e cosa tu hai superato. 

Come abbinare una risposta ad una domanda. 

Come quella maglietta che dice “È la mia Storia“. Sempre con la S maiuscola, poiché è unica.


Le condizioni ideali non esistono, quando senti che … forse non sei pronto, ecco quello è il momento giusto per partire. 

Certo, il cielo azzurro aiuta un po’, ma tutto quello che ti serve è dentro al cuore, dentro alle scarpe, dentro ai pensieri che hanno disegnato il mondo che ti viene incontro. 

Ci sono idee folli, percorsi che qualcuno dice: “Non ci riuscirai.” 

Ci sono fatiche nascoste ovunque e altrettante energie che ti aspettano. 

E c’è Ötzi, che per qualche mese è stato come l’Isola Che Non C’è. 

Qualcosa, una voce, una storia, da raggiungere, un istinto, che ha regalato nuove esperienze, altri incontri, da mettere nella cassetta degli attrezzi e portare fino al prossimo sogno. 


Un abbraccio da quassù, dove la Terra è bellissima, senza confini.

Alberto

@per4piedi

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