Questa storia inizia l’8 marzo del 2015. E non pensavo avrebbe mai avuto il seguito di questa sera. Perché questa sera ho battuto George.
Chi è George?
George è uno che corre forte e mi ha insegnato molto sulla corsa. E’ uno che impasta la farina per fare il pane, ogni notte. E insegna anche a preparare il pane. Ama sua moglie Gillian e i suoi due figli.
George mi ha insegnato la lealtà (“se uno è leale nella vita, cioè non ti racconta bugie e non ti lascia da solo, lo è anche nella corsa. Se non è così, tu cambia strada”) e ha contribuito ai movimenti delle mie braccia. E’ del Camerun e correva con la nazionale del suo Paese. Come ho incontrato George lo trovate qui.
Il martedì sera è tempo di allenamento collettivo al parco. Una di quelle cose non organizzate, che si replicano da anni, e diventano tradizione. Si parte, tutti insieme. Dieci chilometri. Ognuno con il suo passo. E si accende la gara. Nessuno vince nulla, nessuno perde nulla. E George stacca tutti. Sempre. Subito. Giusto così. Ha una corsa che incanta. Estetica, leggerezza, potenza. Resta dietro persino il vento.
“Come fai George?”, gli ho chiesto una volta.
“Ho sempre corso piano, quando non dovevo correre veloce.”
Anche ora George è già lontano. Gli altri, cioè noi, ci guardiamo per capire come siamo messi questa sera. Io parto lento, ma mi sento bene. Il respiro è calmo, le braccia fanno il loro lavoro. Le gambe scorrono fluide. Ho in testa un nuovo mantra che è già diventato musicale. E mi lascio trasportare. Cerco il ritmo. Il mio ritmo. L’unica cosa che ricordo è che mi sorprendo ad accorgermi che ho la mente libera. Il resto segue, sereno. E agile. Potente. Sì, provo la sensazione di potenza. Sento il piede che spinge indietro il terreno e l’altro segue. Il corpo segue la ritmica della leggerezza. L’altro giorno ero stanco, adesso mi diverto.
Il mio orologio dice che siamo a metà corsa e un po’ di più. George è lì davanti, puntino verde e nero, con i pantaloni lunghi, sempre. Dietro un buon numero del gruppetto di corridori. Attorno ne ho meno del solito. Strano. Non ho sete, non ho fame. Ho solo voglia di ascoltare le Blushield suonare il parco in un tam tam da tamburo africano.
E nell’ultimo chilometro e mezzo accade qualcosa che non mi aspettavo.
Ecco Gianni, il dentista. Provo a stargli dietro. Lui corre veloce. Raggiungiamo una ragazza in bicicletta, la affianchiamo io a sinistra, Gianni a destra. Però non lo vedo più quando superiamo la bici. Mi volto e Gianni è dietro. Proseguo. C’è una curva che si perde tra gli alberi, con un breve salita di terra battuta. E c’è Luciano, capelli bianchi, occhi azzurri, pochi anni più di me. Non si accorge che arrivo e lo supero in discesa. “Ma cosa ti hanno dato a Trento?”, ride.
Mancano trecento metri ai dieci chilometri. E sono secondo della garetta improvvisata del martedì. E George? Sarà già arrivato. Un’altra curva e vedo il panettiere del Camerun ad una manciata di metri.
Cosa?
Ma che succede? A quanto stiamo andando? Piedi ma che fate? Non mi ascoltano e proseguono. Voglio prendere George. E tiro le labbra indietro. Scopro i denti e aumento ancora. Curva secca a destra, da un lato il parco, dall’altro le mura del palazzo ducale.
Rettilineo. George ti prendo.
Aspetta, Alberto, aspetta.
Mancano ancora cento metri. Manca ancora un sacco. Resto un po’ all’interno della curva e pesto il piede sinistro sul terreno, alzando il ghiaino. E pesto il piede destro come un leone, portando “avanti il bacino e verso l’alto” come mi ha insegnato George, come corrono in Africa. Altra curva a destra, l’ultima e non vedo più George dove la coda dell’occhio può arrivare.
La linea del traguardo passa tra un lampione e una statua. E la tocco per primo.
Arriva George e mi abbraccia “Fratello”, urla. “Te l’ho insegnato io quello scatto.” Ridiamo. “Frequenti troppo gli africani, hai imparato il nostro ritmo. Adesso te li puoi sbranare tutti. E questo non te lo toglie nessuno. Sguardo in avanti e ridi quando perdi e quando vinci.”
Sarà anche la corsa al parco, ma questa sera ho battuto un africano, che quando si alza sui piedi fa qualcosa di diverso dalla corsa. George usa la corsa per scrivere danze potenti.
Sono contento e vado dove tutto è iniziato. Nella parte del parco con un laghetto. Sta arrivando il tramonto e il martedì se ne va. Qui è nata la mia corsa, il blog, i sogni. Gli incontri, i progetti, sempre più grandi, potenti. Qui sono rinato io, qui vorrei portarti, prima o poi. La superficie del lago sembra ridere per il solletico del vento.
E questa storia finisce così con le mie mani nell’erba, i piedi nudi sulla terra battuta.
Vorrei bere una birra, abbracciarti e raccontarti questa storia. E mi affido a questo tramonto mica male e al ritmo che ho nei piedi e nelle mani.
Alberto
(@per4piedi)