Unesco Cities (Half) Marathon e poi il mare.

Dopo tre anni c’è ancora il traguardo di Aquileia ad aspettarmi. Lì sono diventato Maratoneta. E per la prima volta ho capito che dopo ogni Maratona c’è un prima e un dopo. La corsa è sempre quella dedicata all’Unesco, perché parte da Cividale, transita per Palmanova e poi via sempre dritto fino ad Aquileia, tre città patrimonio Unesco, con i resti romani che segnano l’ultimo chilometro e l’aria gonfia di mare che ti saluta. Se ti va, da lì al mare ci arrivi davvero. Oggi corro la mezza Maratona, Iulia Augusta Run l’hanno chiamata. Nome imperiale.

Non sono preparato, penso!

Le tabelle di preparazione, i due traslochi in un mese, il trasferimento, le sveglie prima dell’alba e il cuscino ben oltre lo spuntare delle stelle dicono che non sono allenato per nulla. Il ginocchio, che da qualche giorno mi fa risentire la sua anatomia, dice che non sono pronto. Anche il collo consigliava di stare a casa: “Questione di senso dell’equilibrio”, dice. In più, sono completamente solo: sono partito presto da solo, ho fatto un viaggio lungo, ho evitato la chiusura del casello dell’autostrada e sono arrivato che al ritiro del pettorale c’era solo una bambina dietro al bancone, occhi assonati tra occhiali rotondi, dentro una felpa giallo Tour de France, troppo abbondante per lei.

Michele, autista di autobus.

Attendo nel parcheggio, in macchina, perché fa freddo. Tira vento. Viene da sud. Avremo il vento contro. Tutto dice che oggi sarà un massacro. Il mio vicino di auto si chiama Michele. Anche lui è da solo. Mi sembra un po’ spaesato. Scopro che è la sua prima mezza. Corre da 3 mesi, ha 46 anni, due figlie piccole. La moglie non capisce questa improvvisa passione per la corsa. E, soprattutto, Michele ha paura che non ci sia la navetta che da Aquileia ci riporterà a Palmanova. Questo è un timore così presente che Michele mi chiede: “Cos’è il numero che ti stai mettendo sulla maglietta?

“E’ il pettorale. Lo hai preso?”

“No, faccio in tempo? Dove? E…?”

“E calma. Siamo qui per divertirci. Che lavoro fai?”

“Guido gli autobus.”

“Ecco, abbiamo risolto anche il problema del ritorno, se ci fosse bisogno.”

David va veloce.

La piazza di Palmanova è acciecata dal sole. Riconosco David: segue il blog via Twitter. Ci salutiamo. Mi piace sempre quando i pixel diventano realtà. Oggi fa il pacer dell’ora e 40. “Corriamo insieme?”, mi chiede.

David ha lo sguardo rassicurante e disteso, ma: “Oggi io punto alla pastasciutta”, gli rispondo e ridiamo.

Incontro anche Andrea, mio compagno di università, a Udine. Le corse servono anche a questo. (Andrea, grazie per le dritte su Valencia e in bocca al lupo per la Coppa Friuli).

Lo sparo e la tattica di Bordin.

A Palmanova, città murata dal passato militare, lo sparo del via è amplificato da un colpo di cannone. L’anima schiocca le dita. Io sto correndo e la testa dice: “Goditi il viaggio, oggi faccio tutto io.” E il corpo segue. Subito. Segue proprio bene. Mi sono trasformato.

Incrocio Michele e corriamo appaiati fino al chilometro 14. “Come l’età di mia figlia. L’altra ne ha 7.” “Ecco, adesso vatti a prendere i 21”. Michele se la ride. Mi chiede un sacco di cose: andiamo forte? piano? bisogna dosare le forze. Meno male che nuoto. Hai fatto New York? Mamma, che roba! E com’è? Bordin? Ma Bordin, Bordin?

Sì, Michele. Bordin, Bordin. E non sai che stiamo correndo secondo la strategia che mi ha disegnato lui per la mezza di Treviso. La distanza di 21 chilometri divisa in due parti. Ognuna da correre con una progressione di ritmo costante. E negli ultimi tre chilometri, se ne hai, buttati. Ma non dimenticare di riposare, durante la corsa. In ottobre non l’ho seguita: c’erano altri obiettivi, altre storie da raccontare.”

Ecco caro Michele, alleato per poco più di un’ora, questo è quello che avrei voluto dirti al tuo “Ma Bordin, Bordin?”, stupito.  E invece ti ho risposto: “Non pensarci. Ridi e inganna il cervello.

Più o meno è lo stesso.

Valerio e Cristiano.

Cento metri davanti compare un papà che corre. So che è un papà perché spinge un passeggino da corsa. Lo raggiungo. Ci affianchiamo, senza parlare. Al ristoro mi chiede: “Per piacere, mi passi una bottiglietta d’acqua aperta? Che se mi fermo Valerio si mette a piangere.” “Certo, tu come ti chiami?”

Cristiano.” (Dunque, un Valerio e un Cristiano li ho incontrati anche qui e corrono con me, ma questa la capiscono in pochi).

Scopro che la compagna di Cristiano sta correndo la Maratona, è la sua prima. Lui avrebbe voluto che corresse una Maratona con più persone “perché sai, è la prima. E invece no, lei ha voluto correre questa per amore della terra, perché la poca gente attorno, sai, è una prova più coraggiosa.” Tre anni fa, avevo in tasca il pettorale della Maratona di Milano. E ho fatto la stessa scelta della mamma di Valerio. E per gli stessi motivi. E’ una scelta che ha pagato.

Let’s dance.

Corro bene, ginocchio e collo sono rilassati. Supero una runner che, nel marsupio dietro la schiena, ha lasciato l’mp3 acceso. Una discoteca a cielo aperto per le strade del Friuli Venezia Giulia. Cara sconosciuta, hai ragione. Danziamo.

Mancano ancora sette chilometri, è il momento di un altro cambio di ritmo. Michele è duecento metri più avanti. Inizio a sentire la fatica e sono di nuovo solo. Non c’è pubblico, non ci sono compagni di corsa. Non c’è più la musica. Solo il vento, i chiaro scuri dell’ombra degli alberi rimbalzano sull’asfalto. Mi appoggio al respiro di una concorrente mentre la supero. Il bip dell’orologio dice che sto andando davvero forte. In questi momenti divento un ingegnere al muretto dei box della Ferrari. Inganno la testa calcolando la strada che manca. Faccio l’appello di tutte la parti del mio corpo. Dialogo con le scarpe. Sì, lo faccio. Ho allacciato la sinistra più stretta della destra. Indosso le Diadora Blushield Hip, le stesse di New York. Avrei potuto far debuttare le Blushield Fly, sarebbero andate perfettamente.

Ciò che sono ora.

Sono concentrato, eppure me la godo. Sono focalizzato sul traguardo e sono puro istinto. Sono respiro, passione, battito regolare, tattica. Sono sudore e leggerezza. Sono in compagnia di me stesso e sono al centro del mondo. Vado a memoria e ho tutto da imparare. E vedo il tappeto, la passerella finale. Come tre anni fa, curva secca a sinistra, lieve pendenza, la basilica di Aquileia che ti toglie il fiato e un sacco di gente attorno. I piedi vanno da soli, tocco il cielo con le braccia. Il cronometro dice che non ho mai corso così veloce una mezza Maratona. La stessa ragazzina che mi ha dato il pettorale mi mette al collo la medaglia. Anche questa giallo Tour de France, un pezzo di Unesco che non mi lascerà più. In quel preciso istante ricevo una telefonata. Leggo il nome sullo schermo e non ci posso credere. Che strane coincidenze regala la vita. Che buffi momenti. Forse sono tutti indizi. Segnali. Da non lasciare scorrere via, credo, no?.

Bevo grandi sorsi di acqua fresca. Quella che non finisce in gola, mi lava via il primo sudore. Oggi ho capito che la potenza sta nella leggerezza del momento e nella dedizione e nella lealtà dei giorni che precedono. Che bisogna lasciare che le cose accadano, senza temere di essere felici. E ho capito che le vittorie fuori casa valgono doppio.

Ciò che doveva essere un massacro è solo serenità. Se non avessi osato, sarei stato folle, non me lo sarei mai perdonato.

Ora, come tre anni fa!

E adesso, vado al mare davvero.

Alberto

#4piedi

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