Dopo due settimane dall’inizio della TransKamchatka, l’orizzonte prende sempre più la linea dei volti di chi aspetta a casa.
Dicono che sulla Terra sia impossibile essere distanti più di 25mila chilometri dal punto dove si è nati. Chissà perché altri esploratori, prima di Stefano Gregoretti e Ray Zahab, hanno sentito l’esigenza di calcolare questa misura. Forse perché, insieme alla nostalgia, dà un senso di sicurezza sapere che nessun luogo è poi così lontano, in fondo.
Anche la costa est della Kamchatka, ancora tanto e tanto distante ed imprevedibile, ha una sua fine, adesso ancora ben protetta dal tempo futuro. Non è facile, nessuno ha detto che lo sarebbe stato. Quasi nulla sta andando secondo i piani rispetto alla tabella di marcia. Se guardiamo i calcoli, Stefano e Ray hanno perso una settimana precisa: il ritmo dell’avanzare è deciso dalla Natura, che non conosce il ritardo perché non ha fretta, eppure realizza tutto ciò che dovrà essere.
E poi c’è il paradosso.
Sì, perché i chilometri percorsi sono esattamente quelli preventivati. La traccia del gps, blu elettrico lungo la mappa, racconta una cadenza per tentativi successivi. Gli slanci in avanti, smussati dal dover tornare indietro a prendere le slitte, dopo aver costruito la via più efficace. Arrivi al fiume, c’è un ponte di neve, sembra reggerti. Invece crolla con te sopra, eviti l’acqua appena in tempo, con gli addominali che reagiscono spingendoti di lato. Il prezzo della salvezza è il bruciore delle fibre muscolari che quasi si strappano per lo sforzo. Il fiato si accorcia mentre ti rimetti in piedi e ritorni indietro. Ricominci e così via. Sembra che la Kamchatka ti guardi e non si accontenti dei tuoi occhi, protetti da una visiera da astronauta. Vuole guardarti più a fondo, arrivarti dentro. Vuole cercare la tua determinazione, la pretende per farti procedere. Questa terra si duplica tra giornate di sereno perfetto e poi l’incubo bianco, chiamato whiteout. Nebbia di neve, premuta contro la barba e il fondo della gola dal vento fortissimo. Gelido, arrogante.
La neve è ovunque, galleggi.
Tutto è bianco, persino dove prima c’era il cielo. L’orientamento si frammenta all’istante, lo spazio è senza misure. Vertigine. Ogni 500 passi Stefano controlla la rotta guardando l’orologio. 500 passi, per cercare la lucidità in mezzo al senso di vuoto. Una clessidra che scende in orizzontale.
Il giorno dopo, magari, ritornano le giornate terse e l’orizzonte risplende, tu respiri di nuovo bene. L’eco della tempesta sembra non essere mai esistito tanto il silenzio è ritornato quieto sopra la pianura. La neve è docile, ti permette addirittura di salire il pendio di una collina per guardare lontano e cercare altra neve più compatta. Stefano e Ray hanno capito dopo i primi centro metri che la Kamchatka è il luogo degli estremi, degli alti e bassi, come tutte le spedizioni, del resto. Trovi un mucchio di neve insormontabile, fai 7 km in un giorno e la sensazione che hai dentro ti dice, E’ finita. Poi incontri una pista più battuta, quasi non ci credi: voli spingendo indietro gli sci a 4 km all’ora e ti sussurri in testa, Tra 10 giorni è tutto finito!
Le sensazioni fisiche producono stati d’animo magmatici, come il ripieno dei vulcani attorno. Speranza e delusione e ricomincia. Anche cinque volte al giorno, cinquanta, cinquecento, come i passi necessari per orientarsi dentro il bianco assoluto. Poi gli occhi si chiudono, esausti nella notte, senza la certezza che troverai il percorso libero quando all’orizzonte ritornerà l’alba. E’ esplorazione, fa rima con vita. Nulla va come i piani, ma stai vivendo ciò che cercavi. Allora silenzia i pensieri negativi, concentrati sui positivi.
In fondo, dopo il whiteout, vedi bellezze che assomigliano ai tuoi sogni.
Alberto Rosa
#4piedi