Osservare la Kamchatka mentre l’aereo ti porta in alto, lontano, dà un senso di compiuto. La meta geografica che Stefano Gregoretti e Ray Zahab si erano prefissati è rimasta 100 chilometri più in là del letto dove il fiume Zhupanova continua a scorrere in questo caldo anomalo inverno. L’esplorazione è soprattutto accettare serenamente ciò che propone il territorio che si sta scoprendo, magari avanzando di un solo sci alla volta, sollevando bene le ginocchia per levigare la neve che avvolge i polpacci.
“Una cosa che ho imparato portando il mio corpo e la mia mente verso la scoperta di nuovi territori – dice Gregoretti – è che questa non è mai una battaglia con la Natura, ma piuttosto un gioco, certo non leale perché vince sempre Lei. E non è nemmeno una gara sportiva, dove comunque non devi andare contro gli avversari, ma piuttosto contro il tuo corpo, per portarlo costantemente un po’ più in là. Quando sei immerso nella Natura, sei in una dimensione che non controlli tu e puoi solamente accettare ciò che accade.”.
Passando all’analisi tecnica della TransKamchatka, Stefano Gregoretti getta le basi per nuove esperienze. “Sono contento poiché la preparazione è stata ottimale. Ho perso peso, e mi sembra normale, e il corpo funzionava bene: quando è rimasta solo la parte muscolare, dopo il passo di Oganci soprattutto, siamo riusciti a tenere medie elevatissime. E i materiali hanno fatto il loro lavoro alla perfezione, non ho nemmeno un’unghia incarnita. Il corpo è perfetto, non sono stanco: abbiamo incontrato una barriera orografica e abbiamo accettato di fermarci.”.
Arrestare l’avanzata davanti al fiume Zhupanova è stata l’unica opzione possibile, su questo aspetto il pensiero di Gregoretti è netto: “C’è un discorso di responsabilità da fare, a cui tengo molto. Responsabilità nei confronti propri e degli altri. Secondo le previsioni realizzate con la tecnologia e con le statistiche storiche, i fiumi avrebbero dovuto essere le nostre autostrade solitarie attraverso la Kamchatka. Bene, il territorio ci ha mostrato una realtà diversa. La slitta era un aratro, dovevamo andare avanti con gli sci per due chilometri scegliendo il percorso, poi ritornare indietro, ricalpestare, prendere la slitta e ripercorrere la strada che avevamo aperto. Così per guadagnare due chilometri ne devi percorrere sei. Poi, e questo è stato il momento della decisione di rispettare il fiume, se passi su un ponte di ghiaccio e mentre sei sopra questo cade, ti ritrovi in acqua, e non è mica il Rio delle Amazzoni, dove c’è caldo e puoi rimanere bagnato. Magari resti separato dalla slitta e dal materiale per la sopravvivenza, e questo ci è capitato diverse volte. Se la situazione si aggrava, devi chiamare l’elicottero per farti recuperare, mettendo a rischio la tua vita e quella di altri. No. Il messaggio della Natura è stato chiarissimo. Fermarsi non è un fallimento, è una scuola per il futuro: ci saranno altre esperienze, già dalla prossima estate, e io ho imparato qualcosa in più.”.
Anche se la Kamchatka è diventato un territorio familiare, il suo confine più estremo rimane protetto sull’altra sponda del fiume, come forse è giusto sia per le fantasie che evoca il suo nome. E questo inverno, così anomalo anche laggiù, sembra contenere un messaggio chiaro, rivolto agli essere umani: “per continuare a giocare assieme alla Terra, bisogna fermarsi in tempo.”.
Per il resto, la porta dei sogni è più aperta che mai.
Alberto Rosa
#4piedi